Il brullo isolotto di Santo Stefano e la vicina isola di Ventotene sono state fin dalla antichità luoghi di esilio coatto già a partire dagli antichi Romani, e in seguito dai Borbone, dai Savoia e negli anni del Regime fascista.
Isole infelici, nate come luoghi di punizione e di dolore situate nell’arcipelago Pontino, distanti solo qualche miglio da quelle più 'felici' di Capri e di Ischia.
Fu Giulia maggiore, figlia di Augusto, assieme alla madre Scribonia, ad inaugurare la triste esperienza dell’esilio (I sec. a.C.), per ordine dello stesso padre, fu poi seguita da Agrippina maggiore per ordine di Tiberio, Ottavia, figlia di Claudio e moglie di Nerone, e ancora in seguito Flavia Domitilla, nipote di Domiziano.
A metà del 1700 il Marchese Bernardo Tanucci della corte borbonica napoletana pensò di dare vita a un illuminato esperimento, tanto caro a Jean Jacques Rousseau, che sosteneva come il contatto con la natura incontaminata e la lontananza dalle quotidiane tentazioni delle aree urbane, fosse capace di facilitare la redenzione e il recupero alla società di criminali, prostitute, nullafacenti, accattoni e comunque di diseredati di tutte le specie.
L’esperimento però fallì ed i medesimi terreni da questi iniziati a coltivare furono successivamente affidati a famiglie di 'coloni', molti dei quali contadini e pescatori dell'area compresa tra il basso Lazio e il napoletano, che vì furono inviati qualche anno dopo.
Ciò diede modo al Re Ferdinando IV di Borbone di utilizzare l’impervio scoglio di Santo Stefano per edificarvi, invece, una possente struttura da adibire all’apparenza come “Bagno penale” per criminali della peggiore specie, ma in modo più realistico, per deportarvi in massa rivoluzionari, dissidenti politici e facinorosi non graditi alla Corte. A progettare l’originale struttura ed a seguirne di persona i lavori di costruzione (1792 - 1797) fu l’ingegnere napoletano Francesco Carpi, che ideò, secondo i dettami dell’epoca un 'Ergastolo', come da lui definito, a pianta ad esedra, che, anche se rientrante tra quelli a struttura “Panottica”, si rifaceva però sorprendentemente al “Teatro San Carlo” di Napoli (opera degli architetti Medrano e Carasale, 1737) e in un certo senso al teatro greco, ma con ruoli ribaltati.
La guardia al posto dell’attore (sulla torretta di controllo - palcoscenico) ed i detenuti nelle celle al posto degli spettatori nei palchi ordinati a semicerchio, intorno alla cappella centrale della grande arena scoperta: “… immagina di vedere un vastissimo teatro scoperto dipinto di giallo, con tre ordini di palchi formati da archi, che sono i tre piani delle celle dei condannati” (Luigi Settembrini, che qui fu detenuto).
Un edificio capace di garantire sia all’autorità temporale sia a quella spirituale una visione panoramica, necessaria per il totale controllo dei galeotti comuni e dei deportati politici.
Un edificio carcerario nato non solo per finalità retributive “punitur quia peccatum est” (specifica per i criminali), ma anche per assolvere principalmente quelle finalità deterrenti ed intimidative (materiali e psicologiche) che la pena carceraria poteva far pesare come macigni in modo particolare sui “politici”.
L’isolamento ed il silenzio continuo, le bocche di lupo e le inferriate, le scudisciate e le catene ai riottosi, condizionavano in modo irreversibile anche le tempre più forti e spesso gli stessi trattamenti, erano riservati ad entrambe le categorie di detenuti.
I Settembrini (padre e figlio), Giuseppe Poerio, Silvio Spaventa, assieme a Fra Diavolo, a omicidi, grassatori e qualche decennio dopo il brigante Carmine Donatello Crocco e, ancor dopo, numerosi attentatori di stampo anarchico sbarcarono a Santo Stefano. Anche i Savoia si servirono di questo aspro scoglio per incarcerare Pietro Acciarito e Gaetano Bresci, attentatori di Umberto I re d’Italia, e tanti altri anarchici, tra cui Romolo Tranquilli fratello di Ignazio Silone e Rocco Pugliese che fecero compagnia al feroce bandito Giuseppe Musolino.
E, non da ultimi, i comunisti ed alcuni costituenti: Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia, Umberto Terracini, senza dimenticare minimamente l’ospite della cella 36: Sandro Pertini, futuro Presidente della Repubblica.
Per tutti indistintamente, politici e reietti della società, su questo lembo di terra, ergentesi prepotente dal mare verso il cielo, i giorni erano sempre uguali in una sorta di pseudo immobilità, ma dove invece tutto scorreva lento ed inesorabile fino al 1952.
La cupa e tetra gestione del carcere all’improvviso sembra fare un sussulto.
Eugenio Perucatti, il direttore lì inviato nel 1952, uomo tranquillo ma ben determinato, volle dare uno scossone alla storia carceraria: un lento passaggio da una pena con finalità retributivo-deterrente ad una stagione di riflessione che dava il via, anche se le norme non lo prevedevano e le autorità erano sorde a questa nuova ventata di speranza, ad una stagione con finalità prevalentemente di risocializzazione e di recupero del soggetto alla società civile.
Attuò sotto la sua responsabilità nuovi sistemi penitenziari dove l’ozio diurno fu sostituito da attività lavorative, scolastiche e religiose. Dove il ricordo della famiglia e degli affetti furono sostituiti da continue visite di mogli e figli …
Un sogno che durò solo pochi anni. Nel luglio del 1960 l’uomo che aveva anticipato in modo pioneristico la pratica attuazione dell’art. 27 della Carta Costituzionale: le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato ... e quanto poi recepito nella legge di Riforma delle carceri del 1975, veniva pomposamente trasferito ad incombenze amministrativo-ministeriali: “promoveatur ut amoveatur”.
L’Ergastolo fu definitivamente chiuso nel febbraio 1965 con Decreto del Ministero di Grazia e Giustizia e progressivamente abbandonato fino al 2016 anno in cui il Governo italiano ne avviò il recupero.
(estratti dal libro Antonio Parente)